di Alain Chivilò
© Alain Chivilò
L’irrazionale Geometrico. Astrazioni Poetiche. Achille Perilli (Roma 28 Gennaio 1927 – Orvieto 17 Ottobre 2021). Il credo artistico di Achille Perilli inizia all’interno di una costante ricerca estetica e di contenuti al fine di raggiungere un’arte sempre propositiva. Di conseguenza la sua produzione, specialmente all’inizio, necessitava di un recepimento che è avvenuto non in modo immediato e la vendita delle prime opere non ha trovato riscontro in tempi brevi, per un’arte essenzialmente non concepita per il mercato. Ne deriva che l’aspetto mercantile non apparteneva allora come oggi al personale dna di Perilli. Ripercorrendo l’iter iniziale del Maestro, l’informale non era inteso come segno e gesto ma narrazione. Successivamente l’astrattismo geometrico, ultima sua quarantennale ricerca, diventa “irrazionale” nel quale la prospettiva permane “come concezione, come griglia di lettura, come segnale”, da cui si dipana l’analisi di Perilli in una commistione tra “elementi ritenuti certi dall’ottica” e “interferenze di colore, tono, segno, struttura”. Nulla è schematico e la gamma coloristica, spesso in contrapposizione cromatica, infonde liricità e passione. E’ stato firmatario nel 1947 con Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Mino Guerrini, Antonio Sanfilippo, Piero Dorazio e Giulio Turcato del I gruppo artistico europeo denominato Forma 1. Nel rivedere la produzione artistica di Achille Perilli, si evince come lo studio e il fare propositivo, all’interno di personali contenuti, vinca sulla logica del facile successo perché solo un percorso di esplorazione viene riconosciuto nel tempo dalla storia. In un breve incontro, ma ricco di contenuti, il Maestro ha risposto ripercorrendo il personale agire artistico insieme ad alcuni fatti storici.
Intervista
Alain Chivilò
La percezione di un informale che andava sostituito con materia, con segni spontanei per trasmettere nuove emozioni percettive. Un passaggio dalla scrittura al fumetto.
Achille Perilli
L’esperienza dell’informale vero e proprio non l’ho fatta, però mi sono trovato in un periodo in cui passavo da un’immagine a un’altra. Questo mi nacque in un momento in cui intuii che nei fumetti c’era una struttura compositiva che funzionava per il mio modo d’intendere l’arte. Quello che volevo fare, come per altri pittori intorno gli anni sessanta, era di allargare l’informale inteso come segno o tipo di scrittura a una situazione più complessa, giungendo così a una forma di narrazione. In quest’ambito ho utilizzato la struttura dei così chiamati fumetti.
Questa fu una ricerca assieme a Gastone Novelli.
Si, eravamo vicini in quel periodo. C’era anche Cy Twombly. Volevamo uscire tutti dall’esperienza americana. Inoltre con Novelli sentivamo la necessità di superare quel linguaggio semplice che Fontana aveva inventato, fornendo un linguaggio più complesso, più complicato e più narrativo.
Il cuore dell’Arte era a Parigi fino agli anni ’50. Cosa voleva dire vivere nella città della Senna dal punto di vista artistico?
L’influenza sulla pittura europea di Parigi durò fino al 1964, anno in cui Rauschenberg espose alla Biennale di Venezia. Parigi era il centro, partendo dall’Ottocento in poi, attraverso diverse esperienze tutte importanti che influenzarono l’agire dell’arte nelle varie nazioni. Per me Parigi rappresentava il modo di come fare la pittura.
Come visto nel 1964 Robert Rauschenberg vinse il Gran Premio della pittura alla Biennale di Venezia. Cosa accade veramente rispetto agli anni precedenti caratterizzati dalla Scuola di New York? Fu anche un inizio di come il mercato potesse influenzare e vincere sui contenuti?
Fino al Sessanta l’arte americana di New York è stata molto importante. Artisti quali per esempio Willem de Kooning, Franz Kline, Robert Motherwell e altri tenevano un rapporto con noi a Roma, perché erano venuti a conoscere gli artisti italiani. Questo contatto era tenuto soprattutto da Toti Scialoja e Gabriella Drudi sua moglie. In questo modo noi conoscemmo l’arte americana direttamente dagli artisti e dalle loro esposizioni nella capitale. Però ad un certo momento, negli Stati Uniti operava un mercante molto importante chiamato Leo Castelli che s’indirizzò verso i giovani come Rauschenberg e Jasper Johns. Nel 1964, avendo in mano con la sua influenza la Biennale di Venezia, fece esporre nel Padiglione degli Stati Uniti questo gruppo di artisti in contemporanea a una mostra presso il consolato americano. Questi due eventi influenzarono molto la cultura europea e in particolare il mondo culturale veneziano, citando su tutti Giuseppe Marchiori e Santomaso. Decisero così di sostenere l’arte americana facendo vincere il premio a Rauschenberg che gli consegnò lo stesso Marchiori. Questa è la ragione per cui dal 1964 l’arte americana si è sviluppata in Europa, diversamente da quei primi interpreti di New York quali Rothko, de Kooning, Motherwell e altri che proponevano una bella arte primitiva. Da quel momento si indirizzarono su Warhol e altri esponenti della Pop Art. Questi furono gli accadimenti che portarono il successo di quest’arte americana in Europa.
Forma 1 è stato il primo movimento europeo nel 1947. Successivamente si susseguirono il nascere di altri gruppi. Un’unione di persone diverse in una ricerca da approfondire. Oggi nell’arte, con generazioni diverse, c’è individualità e una sorta di finta amicizia che guarda il proprio giardinetto. Lei che è testimone di quegli anni, cosa effettivamente voleva dire viverli sia positivamente che negativamente?
L’arte europea, subito dopo la seconda guerra mondiale, ha continuato una tradizione che già esisteva per quanto riguarda i Gruppi. C’erano i cubisti, i surrealisti e i dadaisti per citarne alcuni come esempio. Quindi, in quel periodo l’idea del Gruppo era naturale. I giovani pittori europei, appena usciti dalla guerra, si costituirono in vari Gruppi come Forma 1, Cobra, Zero e altri, perché allora si avvertiva la necessità di fare un lavoro di Gruppo. Con il passare degli anni trionfò il mercato e ciascun artista si è inserito in esso per conto proprio. La formazione dei Gruppi, dal 1947 in poi, non era una necessità dettata dal mercato ma estetica. Dunque si lavorava insieme per portare avanti delle idee di pittura che non erano finalizzate a vendere quadri. Questo è il concetto fondamentale e principale da tenere sempre in considerazione.
Nel 1952, ‘62 e ’68 partecipò alla Biennale di Venezia. Nel 2011 espose al Padiglione Italia di Vittorio Sgarbi. In 50 anni com’è cambiata la Biennale?
Secondo me la Biennale è rimasta strutturalmente quella che era. Sono cambiati evidentemente i pittori, perché il clima dell’arte è diverso. Si è passati da Biennali fondamentalmente di ordine estetico a Biennali di natura commerciale. Questa trasformazione ha cambiato questa storica istituzione.
In due poli opposti: un parallelepipedo e un quadrato creano architetture sospese di figure irripetibili dalle cromaticità accese. Anche dalla geometria si possono ottenere trasformazioni non premeditate.
Chiamo la mia pittura degli ultimi trent’anni l’irrazionale geometrico, perché eseguo una costruzione di tipo geometrica non logica, quindi irrazionale. Non c’è nessun principio geometrico in se, ma è una fantasia che si muove nello spazio.
Ha affermato di avere due personalità tra il mondo costruttivista e quello dada-surrealista. E’ proprio la chiave di lettura per leggere il suo percorso artistico?
Fa parte della mia personalità che è ambigua. Non è mai bloccata su una tesi fondamentale, perché si muove passando da un mondo irrazionale a uno razionale. La mia pittura vive in fondo di questo.
Nel 1956 conobbe Tristan Tzara (Samuel Rosenstock) fondatore del Dadaismo. “Dada non significa nulla. E’ solo un suono prodotto dalla bocca”. Cosa rappresentò il contatto con questo movimento?
In quel periodo stavo studiando il Dadaismo perché dovevo fare anche un libro. Il rapporto con Dada mi ha fatto comprendere come fosse effettivamente questo movimento. Ho vissuto in maniera molto concreta la relazione con il Dadaismo diventando amico di molti artisti aderenti che sopravvissero alla guerra. In sintesi, la spinta verso questo movimento fu molto poetica.
La figura di Lionello Venturi fu importante per la sua crescita iniziale nell’arte?
Si, fu il mio Maestro. Sono stato allievo di Venturi perché allora frequentavo l’università. Lavoravo anche nella biblioteca di Venturi e con lui avevo un rapporto diretto. Fu molto importante per me anche se molte volte non condividevo le sue ultime idee sull’arte, perché era rimasto fermo a un’idea di astrattismo, che poi ha evoluto, molto primitiva. Senza dubbio mi ha insegnato a capire l’arte.
Nel 1945 il Gruppo Arte Sociale con Dorazio, Guerrini, Vespignani, Buratti, Muccini. Quanto entusiasmo esisteva?
Eravamo appena usciti dalla guerra ed eravamo giovani. C’era il senso dell’arte sociale e dell’arte delle periferie. Esisteva la gioia della liberazione.
La Galleria del Deposito presso Boccadasse nel 1963 con Eugenio Carmi e altri. Come fu questo spazio autogestito con multipli, serigrafie, foulard, mostre e un giornale. Che ricordo ha?
Fu un’esperienza molto buona perché ero molto amico di Carmi che conobbi ancora prima che facesse il pittore quando era grafico. Nel Gruppo del Deposito esisteva un’idea che mi piaceva molto che consisteva nel fare qualcosa che si affiancasse all’arte con serigrafie, foulard e altro, al fine di entrare in un mondo non diretto all’arte ma vicino.
Nei suoi anni si sperimentava ma non era così facile vendere le opere. Oggi comanda molto il mercato. Secondo lei dove sta andando l’arte oggi?
Sinceramente non lo so. Senza dubbio non è la mia direzione. Appartengo alla generazione per cui fare un quadro significava fare un certo lavoro e non vendere. I primi quadri che mi acquistarono avvenne attorno al 1958/59, quindi per anni non ho venduto un’opera. Ho avuto un bel apprentissage non commerciale. In conclusione direi che dal ’64 il passaggio dall’Europa all’America ha cambiato il concetto del fare arte. Prima la si faceva per il piacere d’idearla, da quell’anno la si fa solamente per venderla. Un approccio molto diverso. Molti artisti sono prodotti dal mercato e non dal loro modo personale di fare arte.
Orvieto, 28-03-2013
di Alain Chivilò
Intervista del 28/3/2013 by © Art Musa © Alain Chivilò
© Alain Chivilò
L’irrazionale Geometrico. Astrazioni Poetiche. Achille Perilli (Roma 28 Gennaio 1927 – Orvieto 17 Ottobre 2021). Il credo artistico di Achille Perilli inizia all’interno di una costante ricerca estetica e di contenuti al fine di raggiungere un’arte sempre propositiva. Di conseguenza la sua produzione, specialmente all’inizio, necessitava di un recepimento che è avvenuto non in modo immediato e la vendita delle prime opere non ha trovato riscontro in tempi brevi, per un’arte essenzialmente non concepita per il mercato. Ne deriva che l’aspetto mercantile non apparteneva allora come oggi al personale dna di Perilli. Ripercorrendo l’iter iniziale del Maestro, l’informale non era inteso come segno e gesto ma narrazione. Successivamente l’astrattismo geometrico, ultima sua quarantennale ricerca, diventa “irrazionale” nel quale la prospettiva permane “come concezione, come griglia di lettura, come segnale”, da cui si dipana l’analisi di Perilli in una commistione tra “elementi ritenuti certi dall’ottica” e “interferenze di colore, tono, segno, struttura”. Nulla è schematico e la gamma coloristica, spesso in contrapposizione cromatica, infonde liricità e passione. E’ stato firmatario nel 1947 con Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Mino Guerrini, Antonio Sanfilippo, Piero Dorazio e Giulio Turcato del I gruppo artistico europeo denominato Forma 1. Nel rivedere la produzione artistica di Achille Perilli, si evince come lo studio e il fare propositivo, all’interno di personali contenuti, vinca sulla logica del facile successo perché solo un percorso di esplorazione viene riconosciuto nel tempo dalla storia. In un breve incontro, ma ricco di contenuti, il Maestro ha risposto ripercorrendo il personale agire artistico insieme ad alcuni fatti storici.
Intervista
Alain Chivilò
La percezione di un informale che andava sostituito con materia, con segni spontanei per trasmettere nuove emozioni percettive. Un passaggio dalla scrittura al fumetto.
Achille Perilli
L’esperienza dell’informale vero e proprio non l’ho fatta, però mi sono trovato in un periodo in cui passavo da un’immagine a un’altra. Questo mi nacque in un momento in cui intuii che nei fumetti c’era una struttura compositiva che funzionava per il mio modo d’intendere l’arte. Quello che volevo fare, come per altri pittori intorno gli anni sessanta, era di allargare l’informale inteso come segno o tipo di scrittura a una situazione più complessa, giungendo così a una forma di narrazione. In quest’ambito ho utilizzato la struttura dei così chiamati fumetti.
Questa fu una ricerca assieme a Gastone Novelli.
Si, eravamo vicini in quel periodo. C’era anche Cy Twombly. Volevamo uscire tutti dall’esperienza americana. Inoltre con Novelli sentivamo la necessità di superare quel linguaggio semplice che Fontana aveva inventato, fornendo un linguaggio più complesso, più complicato e più narrativo.
Il cuore dell’Arte era a Parigi fino agli anni ’50. Cosa voleva dire vivere nella città della Senna dal punto di vista artistico?
L’influenza sulla pittura europea di Parigi durò fino al 1964, anno in cui Rauschenberg espose alla Biennale di Venezia. Parigi era il centro, partendo dall’Ottocento in poi, attraverso diverse esperienze tutte importanti che influenzarono l’agire dell’arte nelle varie nazioni. Per me Parigi rappresentava il modo di come fare la pittura.
Come visto nel 1964 Robert Rauschenberg vinse il Gran Premio della pittura alla Biennale di Venezia. Cosa accade veramente rispetto agli anni precedenti caratterizzati dalla Scuola di New York? Fu anche un inizio di come il mercato potesse influenzare e vincere sui contenuti?
Fino al Sessanta l’arte americana di New York è stata molto importante. Artisti quali per esempio Willem de Kooning, Franz Kline, Robert Motherwell e altri tenevano un rapporto con noi a Roma, perché erano venuti a conoscere gli artisti italiani. Questo contatto era tenuto soprattutto da Toti Scialoja e Gabriella Drudi sua moglie. In questo modo noi conoscemmo l’arte americana direttamente dagli artisti e dalle loro esposizioni nella capitale. Però ad un certo momento, negli Stati Uniti operava un mercante molto importante chiamato Leo Castelli che s’indirizzò verso i giovani come Rauschenberg e Jasper Johns. Nel 1964, avendo in mano con la sua influenza la Biennale di Venezia, fece esporre nel Padiglione degli Stati Uniti questo gruppo di artisti in contemporanea a una mostra presso il consolato americano. Questi due eventi influenzarono molto la cultura europea e in particolare il mondo culturale veneziano, citando su tutti Giuseppe Marchiori e Santomaso. Decisero così di sostenere l’arte americana facendo vincere il premio a Rauschenberg che gli consegnò lo stesso Marchiori. Questa è la ragione per cui dal 1964 l’arte americana si è sviluppata in Europa, diversamente da quei primi interpreti di New York quali Rothko, de Kooning, Motherwell e altri che proponevano una bella arte primitiva. Da quel momento si indirizzarono su Warhol e altri esponenti della Pop Art. Questi furono gli accadimenti che portarono il successo di quest’arte americana in Europa.
Forma 1 è stato il primo movimento europeo nel 1947. Successivamente si susseguirono il nascere di altri gruppi. Un’unione di persone diverse in una ricerca da approfondire. Oggi nell’arte, con generazioni diverse, c’è individualità e una sorta di finta amicizia che guarda il proprio giardinetto. Lei che è testimone di quegli anni, cosa effettivamente voleva dire viverli sia positivamente che negativamente?
L’arte europea, subito dopo la seconda guerra mondiale, ha continuato una tradizione che già esisteva per quanto riguarda i Gruppi. C’erano i cubisti, i surrealisti e i dadaisti per citarne alcuni come esempio. Quindi, in quel periodo l’idea del Gruppo era naturale. I giovani pittori europei, appena usciti dalla guerra, si costituirono in vari Gruppi come Forma 1, Cobra, Zero e altri, perché allora si avvertiva la necessità di fare un lavoro di Gruppo. Con il passare degli anni trionfò il mercato e ciascun artista si è inserito in esso per conto proprio. La formazione dei Gruppi, dal 1947 in poi, non era una necessità dettata dal mercato ma estetica. Dunque si lavorava insieme per portare avanti delle idee di pittura che non erano finalizzate a vendere quadri. Questo è il concetto fondamentale e principale da tenere sempre in considerazione.
Nel 1952, ‘62 e ’68 partecipò alla Biennale di Venezia. Nel 2011 espose al Padiglione Italia di Vittorio Sgarbi. In 50 anni com’è cambiata la Biennale?
Secondo me la Biennale è rimasta strutturalmente quella che era. Sono cambiati evidentemente i pittori, perché il clima dell’arte è diverso. Si è passati da Biennali fondamentalmente di ordine estetico a Biennali di natura commerciale. Questa trasformazione ha cambiato questa storica istituzione.
In due poli opposti: un parallelepipedo e un quadrato creano architetture sospese di figure irripetibili dalle cromaticità accese. Anche dalla geometria si possono ottenere trasformazioni non premeditate.
Chiamo la mia pittura degli ultimi trent’anni l’irrazionale geometrico, perché eseguo una costruzione di tipo geometrica non logica, quindi irrazionale. Non c’è nessun principio geometrico in se, ma è una fantasia che si muove nello spazio.
Ha affermato di avere due personalità tra il mondo costruttivista e quello dada-surrealista. E’ proprio la chiave di lettura per leggere il suo percorso artistico?
Fa parte della mia personalità che è ambigua. Non è mai bloccata su una tesi fondamentale, perché si muove passando da un mondo irrazionale a uno razionale. La mia pittura vive in fondo di questo.
Nel 1956 conobbe Tristan Tzara (Samuel Rosenstock) fondatore del Dadaismo. “Dada non significa nulla. E’ solo un suono prodotto dalla bocca”. Cosa rappresentò il contatto con questo movimento?
In quel periodo stavo studiando il Dadaismo perché dovevo fare anche un libro. Il rapporto con Dada mi ha fatto comprendere come fosse effettivamente questo movimento. Ho vissuto in maniera molto concreta la relazione con il Dadaismo diventando amico di molti artisti aderenti che sopravvissero alla guerra. In sintesi, la spinta verso questo movimento fu molto poetica.
La figura di Lionello Venturi fu importante per la sua crescita iniziale nell’arte?
Si, fu il mio Maestro. Sono stato allievo di Venturi perché allora frequentavo l’università. Lavoravo anche nella biblioteca di Venturi e con lui avevo un rapporto diretto. Fu molto importante per me anche se molte volte non condividevo le sue ultime idee sull’arte, perché era rimasto fermo a un’idea di astrattismo, che poi ha evoluto, molto primitiva. Senza dubbio mi ha insegnato a capire l’arte.
Nel 1945 il Gruppo Arte Sociale con Dorazio, Guerrini, Vespignani, Buratti, Muccini. Quanto entusiasmo esisteva?
Eravamo appena usciti dalla guerra ed eravamo giovani. C’era il senso dell’arte sociale e dell’arte delle periferie. Esisteva la gioia della liberazione.
La Galleria del Deposito presso Boccadasse nel 1963 con Eugenio Carmi e altri. Come fu questo spazio autogestito con multipli, serigrafie, foulard, mostre e un giornale. Che ricordo ha?
Fu un’esperienza molto buona perché ero molto amico di Carmi che conobbi ancora prima che facesse il pittore quando era grafico. Nel Gruppo del Deposito esisteva un’idea che mi piaceva molto che consisteva nel fare qualcosa che si affiancasse all’arte con serigrafie, foulard e altro, al fine di entrare in un mondo non diretto all’arte ma vicino.
Nei suoi anni si sperimentava ma non era così facile vendere le opere. Oggi comanda molto il mercato. Secondo lei dove sta andando l’arte oggi?
Sinceramente non lo so. Senza dubbio non è la mia direzione. Appartengo alla generazione per cui fare un quadro significava fare un certo lavoro e non vendere. I primi quadri che mi acquistarono avvenne attorno al 1958/59, quindi per anni non ho venduto un’opera. Ho avuto un bel apprentissage non commerciale. In conclusione direi che dal ’64 il passaggio dall’Europa all’America ha cambiato il concetto del fare arte. Prima la si faceva per il piacere d’idearla, da quell’anno la si fa solamente per venderla. Un approccio molto diverso. Molti artisti sono prodotti dal mercato e non dal loro modo personale di fare arte.
Orvieto, 28-03-2013
di Alain Chivilò
Intervista del 28/3/2013 by © Art Musa © Alain Chivilò
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